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Ormai è diventato un piccolo classico dei film documentari sul ciclismo, trasmesso in TV in Italia e all’estero, ospite del Bike Film Festival di New York e di numerosi altri festival internazionali, dal Filmed by Bike di Berlino al Russian Sport Film Festival di Mosca.
E’ “L’Ultimo Chilometro”, una piccola produzione indipendente, un film documentario uscito tre anni fa.

Cosa spinge Davide Rebellin a continuare ad allenarsi ore e ore ogni santo giorni, a ormai 44 anni d’età? Chi è Didi Senft, il tifoso tedesco meglio noto come “El Diablo”,che dai tempi di Chiappucci e Pantani pungola i ciclisti con un forcone da Diavolo? Infine, il giornalista Gianni Mura indaga sul destino del ciclismo di oggi, sempre in bilico tra la bellezza dello spo rt e gli scandali del doping.

SINOSSI
L’Ultimo Chilometro è un film su una passione, un’emozione, uno sport: il ciclismo.
Il documentario racconta la storia e la stagione agonistica di Davide Rebellin “il vecchio”, 41 anni e ancora in gruppo con la sua voglia di vincere, le tante vittorie e gli scandali alle spalle, e di Ignazio Moser “il giovane”, figlio ventenne di Francesco, di cui porta il nome, la passione ma anche la pesante eredità.
Il giornalista Gianni Mura, dal 1967 corrispondente e suiveur al Tour de France, ci aiuta a scoprire che cos’è il ciclismo, cos’era e cosa è diventato, tra epica e passione, tra pathos e doping.
Infine, “El Diablo” Didi Senft, con il suo costume da Diavolo, il forcone e le folli corse dietro ai corridori, che porta nel film la passione e l’entusiasmo del pubblico, di cui è simbolo e metafora vivente. L’Ultimo Chilometro è un ritratto del ciclismo.

dal sito Crampi Sportivi

I ciclisti non portano in faccia le età di mezzo. I loro volti si segnano e si sciupano tutti in un momento, in una salita, dopo una vittoria o una sconfitta, durante una cronometro.

Così Gian Luca Favetto attaccava nel 2006 il suo “Contro il tempo”, riflessione appassionata su strade, biciclette e rughe. I ciclisti hanno volti che non dipendono dagli anni, incalzava lo scrittore. Perché al culmine dello sforzo la matricola è indistinguibile dal veterano, il ragazzino identico all’uomo maturo. Tutti trasfigurati, tutti subitamente coetanei. Più che in altri sport, nel ciclismo l’esperienza è un valore assoluto, l’invecchiare un costante migliorarsi, il tempo un concetto relativo. Non è raro che un professionista ottenga i risultati più consistenti della sua carriera dopo i trent’anni.

Poi, in un momento qualsiasi tra i 34 e i 38 anni, anche i ciclisti si arrendono. Sebbene i loro volti continuino a non dipendere dagli anni, le loro gambe appaiono finalmente consumate, i loro animi fatalmente pacificati. Non proprio tutti, però. Davide Rebellincompirà 45 anni il prossimo agosto ed ha appena rinnovato per un’altra stagione il contratto con la CCC Sprandi Polkowice, la squadra polacca in cui corre da tre anni.
Mentre l’altro highlander Jens Voigt, coetaneo di Rebellin, è sceso di bici alla fine del 2014 e oggi dichiara che “il ciclismo non ha più bisogno di un vecchio come me”, Davide è convinto che, tutto sommato, qualcosa da dare al ciclismo lui ce l’abbia ancora. E che, soprattutto, il ciclismo possa ancora dare molto a lui.
Quando gli abbiamo chiesto di rispondere ad alcune nostre domande, Davide ci ha detto subito di sì. “Mi piace il vostro stile, apprezzo molto l’orientamento verso la sensibilità dell’uomo prima ancora che quella dell’atleta”, ci ha scritto, pochi minuti dopo essersi tuffato nel freddo del mar Mediterraneo d’autunno, a due passi dalla sua casa di Montecarlo.

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Ciao, Davide, e grazie per la disponibilità. Innanzitutto, hai notizie di Lex Nederlof? Noi non siamo riusciti a recuperare agenzie fresche sull’olandese, classe ’66, e non sappiamo se nel 2016 continuerà a correre pure lui: dovesse decidere di ritirarsi, tu diventerai ufficialmente il più anziano ciclista con licenza UCI.

Mi spiace, Leonardo, ma non conosco Lex e non so proprio come aiutarvi per avere qualche sua notizia!

Tornando a te, c’è stato un momento preciso in cui hai deciso che avresti continuato a faticare per un altro anno?

A dire il vero, un momento preciso non c’è stato. Avevo espresso a mia moglie in alcuni momenti la possibilità di smettere, ma in realtà non ci ho mai creduto molto (sorride). Ho sempre sentito una “chiamata” nel cuore che mi incitava forte a continuare e a credere nelle mie capacità, aldilà dell’anagrafe.

Qual è stata la reazione di Françoise, tua moglie, alla notizia?

Mia moglie non è stata sorpresa da questa decisione, anzi sarebbe stata sorpresa se avessi smesso. Mi conosce bene, spesso meglio di me, e ha rispettato la mia decisione facendosi coraggio, perché per lei questo è un sacrificio. Ma lo fa molto volentieri.

La prossima sarà la tua 24a stagione da professionista, comincerai la preparazione proprio in questi giorni. Sei conosciuto da sempre per la tua estrema metodicità e per la tua totale dedizione: com’è cambiato, nel tempo, il tuo modo di allenarti?  

La mia preparazione non ha avuto sostanziali cambiamenti, cerco comunque di lavorare bene, in bici e palestra, sulla forza e sull’esplosività, visto che con gli anni si tende a perderle un po’.

Quanto pesa, ad un’età in cui la maggior parte degli sportivi di successo si gode casa e famiglia, ripetere la stessa routine di sempre, fare le stesse rinunce che facevi quando avevi 25 anni in meno?

Se ho deciso di continuare a correre è anche perché non mi pesa fare questa vita. Non è un sacrificio, mi sembra di averla fatta dalla nascita. Fa talmente parte di me che è diventata la mia normalità.

Veniamo al punto: noi vogliamo cercare di capire nel profondo il perché della tua scelta. Ora, io ho provato a fare tre ipotesi, a cercare di capire perché mai un uomo della tua età e con la tua storia possa decidere di andare ancora avanti. Te le elenco una alla volta.

Va bene.

Ipotesi 1: il tuo è il tipico caso di atleta che ha paura di quello che sarà la sua vita dopo la fine della carriera sportiva, e allora tenta di prolungarla il più possibile, correndo l’inevitabile rischio di sembrare quasi patetico, e di offuscare l’immagine vincente che si era costruito in un passato ormai lontano. Questo però non è il tuo caso. Hai dimostrato di essere ancora assolutamente competitivo: nella stagione appena conclusa hai vinto la Coppa Agostoni e  un mare di piazzamenti. Ipotesi 1 scartata, quindi.

Sì, scartata.

Ipotesi 2: sei un esempio di campione che decide di “svernare” all’estero per strappare un ultimo contratto remunerativo e godersi palcoscenici emergenti e ricchissimi. Nemmeno questo è però il tuo caso: corri per una squadra polacca, fatichi come nelle squadre più importanti, non ti ricoprono certo d’oro e per di più non puoi nemmeno partecipare alle corse principali del calendario internazionale. Direi che possiamo scartare anche l’ipotesi 2.

Direi di sì.

Ipotesi 3: corri per dimostrare qualcosa di extra-sportivo, nell’attesa di una redenzione definitiva dopo i fatti di Pechino. Questa opzione poteva avere un senso fino all’aprile scorso, quando sei stato assolto da tutte le accuse di doping: tu stesso l’hai definita “la vittoria più importante della mia carriera”. Ecco, dopo questa enorme soddisfazione personale avresti potuto tranquillamente smettere. E invece no, crolla anche l’ipotesi 3.

Bene, a questo punto tocca a te illustrarci l’ipotesi numero 4, che evidentemente è quella che conosci solo tu, unica risposta possibile al perché della tua scelta.

L’unica ragione per la quale continuo è la pura passione per la bicicletta, che aumenta anziché diminuire, che continua a darmi la forza, che lascia al cuore l’ultima parola. Il punto è che non ho più paura di niente, tantomeno di quello che sarà della mia vita dopo il ciclismo. Inoltre, voglio dimostrare che l’età non è un limite. Certo, è essenziale mantenere la forma fisica, ma tutto dipende dalla mente. I risultati si ottengono grazie alla disciplina, alla volontà, alla fede e all’amore per il proprio lavoro. Dove sta scritto che un atleta di più di 40 anni non può rendere? In più, lo faccio per i tifosi: in tantissimi mi mandano continui messaggi di stima, mi spingono a gareggiare. Provo per tutti loro un grande senso di gratitudine.

 

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Nel documentario L’Ultimo Chilometro, dici di essere cambiato, negli ultimi tempi: “Il vecchio Davide era solo bicicletta”. Adesso parli invece di “prospettiva nuova”, sostieni di amarti di più, e tua moglie Françoise sembra averti dato una spinta fondamentale verso questo cambiamento. Hai raccontato che, prima delle corse, lei non ti dice “Vai e vinci” ma “Vai e sii felice”: cosa rappresenta Françoise per te? Il nuovo Davide, invece, chi è?

Quando ho conosciuto Françoise ero un uomo a metà. Lei mi ha aperto il suo cuore e mi ha spinto a credere di più in me stesso. Pensavo di essere capace solo di pedalare, ma il suo amore mi ha trasformato e mi ha permesso di scoprire l’uomo che sono, e che non conoscevo neanche. Mi ha trasmesso l’importanza di seguire la felicità e concentrarsi sulle cose belle, senza perdere tempo ed energia per il resto. Il nuovo Davide quindi non è più insicuro, ma fiducioso, concentrato sulle cose che ama. È questo che mi spinge.

Ti abbiamo conosciuto come persona estremamente riservata, ma da qualche tempo sei molto attivo sul tuo profilo Facebook. In particolare, spesso pubblichi foto e ricette delle tue colazioni, rigorosamente vegane: leggendo il tuo diario, per esempio, io ho letto per la prima volta dell’esistenza della farina di lupini. È davvero buona come dici?

La farina di lupini è ottima! Ha il 40% di proteine ed è molto gustosa. Comunque, anche l’essere più attivo su Facebook è merito di mia moglie, le ricette fanno parte della sua fantasia. Dosa gli ingredienti un po’ a caso, ma conosce le proprietà di ciascuno di essi: sono mirati a darmi la giusta energia. E ogni ricetta è diversa dall’altra!

Inoltre da quello che scrivi e pubblichi online emerge chiaramente un approccio nuovo ed estremamente sereno verso il tuo mestiere: le foto di te che ti fermi durante gli allenamenti per godere del paesaggio dicono molto di cosa sia per te il ciclismo oggi.

Sì, mi piace molto godere di tutto quello che vedo e incontro per strada, dai tifosi, che spesso mi affiancano, fino alla natura, che mi meraviglia sempre di più. Per esempio, sulle colline intorno a Montecarlo c’è una volpe che ha dell’incredibile: la incontro tutte le volte che pedalo da quelle parti, si fa avvicinare e fotografare. L’ho chiamataFox.

Sei noto come “il chierichetto”, perché da piccolo servivi la messa. Ci vai ancora in chiesa? Che ruolo ha avuto la fede nella tua storia sportiva e personale?

Ti confesso che non ho mai fatto il chierichetto, in realtà! Dicevano questo di me fin da giovane perché frequentavo molto la chiesa, era un luogo dove mi sentivo bene e sentivo il bisogno di andarci. In generale, la fede ha avuto un ruolo fondamentale nella mia vicenda, non mi ha mai lasciato e ho sempre creduto nella giustizia divina: anche questo mi ha aiutato a non crollare. Da quando ho conosciuto mia moglie, però, sento meno la necessità di andare in chiesa, perché ho trovato la pace nella famiglia e dentro di me.

Sei passato professionista nel 1992, insieme a Marco Pantani; il prossimo anno sarà il ventennale della tua vittoria di tappa (con maglia rosa) al Giro d’Italia; sono passati dodici anni dall’incredibile primavera del 2004, quella della tua tripletta Amstel-Freccia-Liegi: ricordo la prima pagina della Gazzetta, con il titolo a caratteri cubitali: “Trebellin”. Insomma, tu sei uno dei pochi che può, con cognizione di causa, dire di aver vissuto due – forse tre – epoche diverse di ciclismo professionistico, con in mezzo il periodo più nero di tutta la sua storia. Com’è cambiato il tuo sport in questo quarto di secolo?

Rispetto a 20 anni fa sono cambiate alcune cose, soprattutto la tecnologia. Abbiamo mezzi più performanti, bici leggere, ruote scorrevoli e rigide, tanta aerodinamica. Anche il modo di correre è un po’ cambiato: ora dal chilometro zero è subito battaglia, mentre prima si partiva più tranquillamente. Inoltre, con l’introduzione delle radioline si è guadagnato in sicurezza, ma si è perso in fantasia: essendo pilotati dall’ammiraglia, a volte si perde l’istinto di attaccare o di fare la corsa a modo proprio.

Condividi l’impressione che il ciclismo sia oggi uno sport più credibile, di cui potersi fidare, nonostante i terribili tradimenti del passato?

Sì, penso che ora il ciclismo sia uno sport credibile e pulito, è lo sport più controllato che ci sia. E sono convinto che rimarrà sempre molto amato. Me ne accorgo pedalando in allenamento: i gruppi di cicloamatori sono sempre più numerosi.

Nella lettera che hai scritto dopo la notizia della tua assoluzione, insieme a tanto orgoglio c’era anche una punta di amarezza. Dicevi: “Ma ora chi mi ridà quel che mi è stato tolto?”. C’è qualcosa che ritieni di dover ancora ricevere dal mondo del ciclismo?

Dopo la mia sospensione son ripartito da zero. A differenza di altri, ho avuto porte in faccia da tutti, sono ripartito da piccole squadre e non ho più potuto correre le gare a cui tengo di più. Questa è la ferita più grande. Ma sono ancora qui a gareggiare, con il doppio della motivazione e della determinazione: la ferita di ieri è la forza di oggi. Quindi non parlerei di amarezza, in fondo. La considero un’esperienza di vita che mi ha permesso di evolvere e di tirar fuori il meglio di me.

Cosa farà Davide Rebellin quando – un giorno molto lontano – deciderà di scendere dalla bicicletta?

Scendere dalla bici? Mai! (sorride). Per quando deciderò di non gareggiare più, però, ho già qualche bel progetto, sempre legato alla bici. Per esempio, sto organizzando degli stage per ciclisti amatoriali: abbiamo iniziato con uno stage a fine ottobre in Toscana, ed è stato un bel successo. Il prossimo sarà a fine novembre. Sono stage dove porto tutta la mia esperienza, e provo a trasmettere l’importanza di concentrarsi sempre sulla gioia che si prova pedalando, non sulla fatica.

Tuo papà Gedeone ti mise in sella che eri ancora molto piccolo. A 10 anni arrivasti terzo nelle prime tre gare disputate, e lui ricorda la tua disperazione ogni volta che non riuscivi a vincere. Ti arrabbi ancora tanto, fino a piangere, quando vieni battuto?

Mi arrabbio ancora molto quando sbaglio qualcosa nella conduzione della gara, non si finisce mai di imparare nel ciclismo. Ma non mi metto più a piangere (sorride), anzi cerco di trarre insegnamenti dagli errori fatti e aggiungerli al mio bagaglio di esperienza.

Alla fine l’hai fatto un conto preciso dei chilometri che hai percorso in bici nella tua carriera?

Allora, calcola che mediamente da quando sono professionista faccio 35.000 km l’anno, poi devi aggiungerne altri 100.000 tra i dilettanti, senza contare le categorie giovanili. Non so di preciso, ma di sicuro ho pedalato per più di un milione di chilometri.

Cosa ne è stato dei tuoi sogni di bambino appena salito su una bici e subito innamorato perso della competizione?

I miei sogni di bambino, cioè diventare un professionista e vincere grandi gare, beh devo dire che si sono realizzati. Ma questo non vuol dire che sia stato tutto rose e fiori…

Potessi tornare indietro nel tempo, quindi, faresti desistere i tuoi genitori dall’idea di incoraggiare sempre e comunque quella tua passione?

No. È vero, sulla mia strada ho conosciuto fino a che punto le persone possano essere ingrate, e quanto tocchi battagliare per superare gli ostacoli e rimanere in sella. Ma c’è anche il lato positivo, e cioè che le prove della vita ti fanno crescere, ti fanno aprire gli occhi sul mondo, ti fanno concentrare sulle persone vere, sincere, belle. Per fortuna ce ne sono tante.

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Dal prossimo gennaio, quindi, Davide Rebellin sarà di nuovo in gruppo. Non sarà semplice vederlo in tv, perché probabilmente non correrà né il Giro né il Tour; forse qualche classica delle Ardenne, le sue preferite, ma non è detto. Sarà molto meno complicato, invece, trovarlo lungo le strade, dove il suo volto segnato dal tempo proverà ancora a confondersi in mezzo a quelli di colleghi che potrebbero essere suoi figli. Se lo riconoscerete, con la maglia arancione e il profilo à la Tintin, fategli un bell’applauso.

di Claudio Gregori – fonte: Tuttobiciweb.it (Image

«Io non sono pio come Bartali», dice Francesco Moser e, aprendo armadi antichi, mostra i piviali e i messali della cappella di Villa Warth, il suo maso. La cappella, con altare barocco in marmo policromo, è del Settecento, ma del maso c’è traccia in un documento del 1339: era il «manso ubi vache manent».Image
C’è il sacro e il profano. L’anima e il corpo. La pisside e, a pochi metri, la bottiglia. Anzi centoventimila bottiglie. C’è il pozzo in pietra, il giardino delle rose, la Loggia che guarda sul Bondone e sulla Paganella. Intorno, vigne favolose. E biciclette.
Inimitabili. Qui è stato inaugurato il museo dei Moser.
Lo hanno chiamato, con arguzia, «Moser in Museo». Come se i campioni fossero cimeli, faraoni nei loro sarcofaghi. Invece i Moser sono vivi. Tutti, tranne Enzo, perito tra le vigne sotto il trattore. Moreno è la rivelazione della stagione tra i professionisti. Gli altri sono qui. E per l’inaugurazione si è disputata la 24ª Francesco Moser, cicloturistica di 73 km, con amatori e vecchie glorie. Francesco in prima fila, a pedalare.
Questa è la più grande famiglia del ciclismo ita­liano. Dal 1951 i Moser imperversano ne­gli ordini d’arrivo. Sono 8 i Moser corridori. I 4 della prima generazione: Aldo, il capostipite, Enzo, Diego e Francesco. E 4 della seconda generazione: Leonardo, Matteo e Moreno, figli di Diego, e Ignazio, figlio di Francesco. Poi c’è Gilberto Simoni, vincitore di due Giri, due volte legato ai Moser: Cecilia, mamma di Francesco, è una Simoni e Anna, sorella di Francesco, è la mamma di Arianna, moglie di Gilberto. Sono tutti di Palù di Giovo, unico paese al mondo che vanti 4 maglie rosa: Aldo, Enzo, Francesco e Simoni. La prima la indossò Aldo il 21 maggio 1958 a Superga e poi la riconquistò 13 anni dopo. Enzo la vestì il 18 maggio 1964. Francesco la conquistò 11 volte e la portò per 57 giorni, più di Bartali, Coppi, Hinault: solo Merckx e Binda leader più a lungo.Image
Pavé. Il Museo racconta la saga della famiglia. Francesco fa la parte del leone. C’è la bici del record dell’ora di Città del Messico 1984, 51,151 km, e la Benotto con cui ha vinto il Mondiale di San Cristobál nel ‘77. C’è la maglia rosa del Giro 1984 e il cubo di pavé del 1980, quando vinse la terza Rou­baix. Ci sono le coppe della Sanremo e del Giro. La prima bici di Aldo, una Torpado. Una gigantografia di Francesco lanciato verso il record con le ruote lenticolari e Enzo, piegato a bordo pista, che lo incita, bello come un “revenant”. Vivo, nella mente e nel cuore. Perfino la cantina sembra una dependance del Museo. Tra bottiglie di Müller Thurgau, Chardonnay, Riesling renano, Gewürtz­tra­miner, Moscato giallo, Lagrein, Schiava, Pi­not Nero, c’è il «51,151 Brut» con etichetta rosa, la punta di qualità della cantina, che celebra il 1984, l’annata eccezionale.Image

Storia. Questa è una famiglia patriarcale. Francesco è il nono dei 12 figli di Cecilia e Ignazio, contadini. I Moser sono cresciuti tra i porfidi, tra campi verticali. Parlano il linguaggio del sole. Sfidano la pioggia e il vento. Uniti. Hanno scelto la strada come campo di giochi. «Quando gareggiavamo, mamma Cecilia era sempre nella chiesa di San Valentino. Ha consumato i banchi», ri­corda Francesco.
Il Museo non è un monumento alla “grandeur”. È una bella storia di famiglia. Invece di parole, oggetti. «Lo abbiamo fatto per gli sportivi, per la gente che passa. Chi viene a prendere il vino da noi, ci fa mille domande. Qui ci sono risposte», spiega Francesco. Gli oggetti, però, hanno un’anima, parlano. «La maglia rosa è per me il ricordo più caro. Ho inseguito la vittoria al Giro per 11 anni pri­ma di coglierla».
Le biciclette, come insetti eleganti, sono allineate su una pista di legno d’abete lunga 16 metri. Le bacheche contengono maglie e medaglie. Le coppe scintillano nelle vetrine. «Sarà una questione genetica. Forse una tradizione culturale. Ma ci troviamo bene in sella», dice Fran­cesco. «La bicicletta è stata il nostro ca­vallo dei sogni, ma an­che della realtà».

da La Gazzetta dello Sport

INTERVISTA A GIAMMI MURA
(http://www.famigliacristiana.it/articolo/abbiamo-bisogno-di-sport-a-misura-d-uomo.aspx)

Nell’ultimo libro di Gianni Mura, Tanti amori, scritto per Feltrinelli, con Marco Manzoni, principale responsabile del libro a detta di Mura, c’è una provacazione che sembra fatta apposta per essere lanciata in questo momento di discussione sul Tour.

Gianni, che cos’è l’Epu, perché lo sport ne avrebbe molto bisogno?
«E’ un acronimo che allude provocatoriamente all’Epo, la droga più diffusa. Significa etica, passione umanità. Abbiamo disperatamente bisogno di uno sport (e di un ciclismo) che tornino ad altezza d’uomo, al rispetto delle regole del gioco e degli avversari».

A proposito di avversari, i più si giustificano dicendo che “lo fanno tutti”, una sorta di legittima difesa?

«Non è una giustificazione, lo sport è anche un fatto etico. Se sei un campione rappresenti qualcosa che va oltre, un pubblico più vasto, non voglio parlare dei soliti bambini, ma insomma non puoi, come fanno i professionisti, parlare di doping dicendo che “ti curi”, come se l’Epo fosse uno sciroppino per la tosse…Essere simboli ha un costo, vale per chi corre in bici, come per chi fa politica».

Nel libro c’è una sua lettera a Pantani, post mortem. Che cosa pensa di questa idea di togliergli il Tour 1998?

«Mi pare un’idea grottesca il fatto che si vada ad analizzare con le regole di oggi il mondo di 15 anni fa, così possiamo riscrivere, ammesso che sia giusto a regole cambiate, la storia, ma è una cosa un po’ teatrale e un po’ sterile, come riesumare Tutankamon per capire di che cosa è morto. Non serve certo a cambiare la mentalità di un mondo sporco».

Che cosa serve o meglio che cosa servirebbe?

«Guardare con durezza al qui e ora: squalificare e cacciare nell’immediato senza sconti, mettendo in condizioni di non nuocere oltre. Bisognerebbe non limitarsi agli atleti dopati, su cui si accende il riflettore, bisognerebbe cacciare anche chi li aiuta. E invece il Coni spagnolo non è andato così a fondo con uno come Fuentes».

Nel libro, che contiene anche storia e storie d’altri più poetici temi, adombrate l’idea che il doping sia un problema sociale. E’ così?
«Credo di sì ma non è una giustificazione. Però è un fatto che viviamo in una società farmacodipendente, che al primo starnuto si impasticca. Una professoressa, qualche tempo fa, ha proposto l’antidoping per gli studenti: se uno prende farmaci per aiutare la memoria e prende un voto migliore di un altro all’esame trae un indebito vantaggio. Ovviamente non se n’è fatto nulla. Anche perché non va dimenticato che il doping è un grande affare e che l’antidoping costa».

Più grave il problema etico di chi si dopa o di chi aiuta a doparsi?

«Sono due facce della stessa disonestà, con una differenza chi si dopa, rischia in salute del suo, chi aiuta non rischia niente».

C’è percezione di questo rischio o è tanta anche l’ignoranza?
«Mi ha dato da pensare la notizia di una corsa ciclistica amatoriale di qualche giorno fa, in cui quando s’è sparsa la voce che ci sarebbe stato un controllo si sono dati tutti ai campi, nessuno è arrivato al traguardo. Vuol dire che è diffusissimo anche il doping brado, della domenica, che nessuno controlla perché costa. Né prima per sicurezza, né dopo per onestà. Ma su Internet si compra di tutto»

Anche con la spedizione anonima…

«Sì come le riviste porno un tempo, a che il vicino non sapesse…». 

01 luglio 2013

Film The Last Kilometer, de Paolo Casalis

The Last Kilometer explore le monde de la course cycliste professionnelle à travers les yeux de deux coureurs qui ne sont pas de la même génération : Davide Rebellin et Ignazio Moser. Ceux-ci font face à des défi s très différents : le premier a perdu la médaille d’argent gagnée aux Jeux olympiques de 2008 pour cause de dopage, et le deuxième est le fils du légendaire Francesco Moser.

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Pour colorer le tout, on rencontre Dietrich Senft, un inconditionnel de la chose cycliste plus connu sous le nom de Didi El Diablo, de même que Gianni Mura, un journaliste sportif italien qui a suivi tous les Tours de France depuis 1967, et dont les observations sur le cyclisme professionnel et le dopage sont parmi les plus pertinentes du film.
Sans faire de grandes révélations, ce film met en lumière la nature épuisante du cyclisme professionnel, où la déception est beaucoup plus fréquente que la victoire, et la détermination pure nécessaire à la survie.
[Robin Black]

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Paris Roubaix is approaching and we’re already excited for it!
We give you all a little present: a 3 minutes excerpt from the film “The Last Kilometer” (we’re about minute 35).
We are following Ignazio Moser’s race, and we hear his father Francesco (3 times winner of the Roubaix) speaking of the race. How to face the cobbles, how to win this legendary race. Enjoy it!

If you like this, you can get the full movie at www.thelastkilometer.com

 

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La settimana scorsa vi ho presentato il film “L’ultimo Chilometro” , definendolo come un film “dedicato alla nostra passione”.

Ho avuto anche il piacere di parlare al telefono con Paolo Casalis, ideatore e regista di questo progetto, e di fargli qualche domanda sul suo bel lavoro.

Dopo l’intervista ho capito perché il film riesce a trasmettere quella passione e quella “poesia della fatica” tipica del nostro sport. Il fatto è che Paolo è prima di tutto un grande appassionato, ex agonista ed ora cicloamatore come tanti di noi.

A fondo pagina trovi anche un estratto dal film che Paolo mi ha girato in anteprima solo per noi di CiclismoPassione.

– Ciao Paolo, anzitutto ci racconti chi sei e cosa fai ?

Ho 36 anni, vivo e lavoro in Piemonte, tra Bra e Torino, e sono un regista: mi occupo di realizzare (e quasi sempre anche filmare in prima persona) film documentari.
Tra gli altri, nel 2009 ho realizzato insieme a Stefano Scarafia il film “Il Corridore” (www.unpassodopolaltro.it) sulla leggenda della corsa estrema Marco Olmo, e nel 2012 ho realizzato il film documentario “Langhe Doc. Storie di eretici nell’Italia dei capannoni” (www.langhedoc.it), vincitore di numerosi Festival e nella selezione ufficiale per i premi David di Donatello 2012.

Spero davvero che “L’Ultimo Chilometro” abbia la stessa fortuna!

– Come ti è venuta l’idea di questo film ? 

Ho corso in bicicletta fino all’età di 18 anni: giovanissimi, esordienti, allievi e juniores.

AL momento di decidere se proseguire tra i dilettanti oppure no ho deciso di smettere, senza traumi: non ero un fenomeno, ero un buon passista-scalatore ma niente di più, e poi si preannunciava un anno scolastico difficile, con gli esami di maturità e poi l’università.

Mi è però rimasta la passione e ancora oggi, nei ritagli di tempo tra un lavoro e l’altro, faccio i miei 3mila chilometri all’anno.

Quando ho chiuso il mio film precedente (che era su tutt’altro tema e argomento) mi sono chiesto “E ora? Che cosa racconto nel mio prossimo film?”

E la risposta è stata: il ciclismo, perché no? D’altronde nel mio piccolo qualcosa ne capisco, e solo sommando tutte le ore passate a guardare il ciclismo in tv (dai tempi di AdrianoDe Zan) penso che avrei già potuto realizzare un paio di film sull’argomento.

La motivazione in realtà è anche un’altra: lo sport in generale è un bellissimo soggetto, fonte di infinite storie, di epica, di pathos, di emozioni.

Ogni gara ciclistica, ogni carriera di corridore, è in sé un’efficace metafora della vita, un sunto delle nostre esperienze: si fatica, si vince, si perde.

– Perchè la scelta è ricaduta su questi 4 personaggi ?

La mia non è stata una scelta casuale: non avevo una lunga lista di corridori a cui chiedere se fossero disposti a partecipare, ma fin dall’inizio avevo questi 4 nomi: Ignazio Moser, Davide Rebellin, Gianni Mura, El Diablo. Ho avuto la fortuna di ricevere quattro risposte positive.

Per me ognuno di questi personaggi rappresenta in modo esemplare determinati aspetti del ciclismo:

-Ignazio Moser è la speranza, la linea verde, il giovane carico di sogni e di promesse. In più, nella sua storia ho visto il fascino (e la difficoltà) del confronto continuo con un padre che è stato un campione assoluto del ciclismo, e a posteriori (e a che mi dice “hai sbagliato Moser”) devo dire che la scelta si è rivelata azzeccata.

-Davide Rebellin è l’ultimo esponente del ciclismo che guardavo in tv nei pomeriggi della mia adolescenza, è “l’ultimo dei dinosauri”.La sua storia, fatta di grandi successi e clamorose “cadute”, come quella di Pechino 2008, è davvero intrigante e affascinante, nel bene e nel male. E poi nel ciclismo il problema doping esiste, e io non potevo né volevo nascondere la testa sotto la sabbia: la scelta di parlare di Rebellin (che in molti hanno criticato a priori, senza neppure aver visto il film) va in questa direzione.

-Gianni Mura è, tra i giornalisti italiani che si occupano di ciclismo, quello che meglio di ogni altro sa tradurre i chilometri macinati sull’asfalto in emozioni, in parole. Forse non è il più tecnico tra i giornalisti sportivi, e sicuramente altri hanno una conoscenza più profonda di questo sport, e però il modo in cui Mura racconta il ciclismo ha qualcosa che va al di là della cronaca, del dato sportivo.

-El Diablo, infine, rappresenta l’emozione, la passione, la gioia, in una parola il pubblico del ciclismo. Didi Senft (così si chiama il tedescone nascosto sotto i panni del diavolo) è esagerato, folcloristico, lucidamente folle, e pertanto è il simbolo perfetto della folla di appassionati che seguono le grandi corse ciclistiche. Filmare lui era per me come filmare l’intera moltitudine degli appassionati di ciclismo.

– Nel film c’è una linea netta tra passato e futuro di questo sport. Si respira una sorta di nostalgia, soprattutto nelle parole di Gianni Mura, e in quelle di Francesco Moser quando parla dei “vecchi tempi” in contrapposizione a quelli moderni. Al tempo stesso c’è una carica di giovane energia e positività nelle parole di Ignazio Moser.

Tu come vedi il ciclismo moderno ? Credi sia più pulito, meno eroico, meno entusiasmante ? Credi che appassionerà ancora la gente ?

E’ difficile per me argomentare per scritto sullo stato attuale del ciclismo e su cosa ne sarà di questo sport: mi ci sono voluti 52 minuti di film per provare a rispondere a questa domanda

Aggiungete un punto interrogativo al titolo del film, e capirete che il mio approccio al film era contenuto nella seguente domanda: il ciclismo è arrivato al suo ultimo chilometro? Stiamo assistendo agli ultimi metri di questo glorioso sport, travolto dagli scandali, dal business, da una modernizzazione (dei mezzi meccanici, dei tracciati, delle squadre, del sistema di gare e punteggi..) che sembra andare in direzione opposta rispetto al mito, all’emozione, all’epica?

Senza svelare nulla del film, posso dire che io confido nel lieto fine, anzi ne sono certo: il ciclismo continuerà ad appassionarci, a coinvolgerti emotivamente, sia da modesti operai della bicicletta sia da appassionati con il telecomando in mano.

Detto questo è vero, come afferma Gianni Mura, che a volte i campioni di oggi non fanno molto per entusiasmarci, e la stessa cosa si può dire delle squadre, dei percorsi delle gare, delle tattiche di gara. Però poi arrivano corridori come Sagan e Moreno Moser, gare come la Tirreno-Adriatico di questi giorni, e noi spettatori ci riconciliamo con questo bellissimo sport.

Sull’annosa questione del doping: qualcuno (Wiggins dopo la vittoria al Tour dello scorso anno) dice che oggi certi exploit non sono più possibili (e quindi le gare sono più piatte e noiose) perchè i motori dei corridori non sono più truccati. Altri (come il giornalista Paul Kimmage) sollevano inquietanti dubbi e analogie proprio tra il dominio della US Postal di Armstrong e la Sky di Wiggins e Froome.

Da che parte stare? Innocentisti e garantisti fino a prova contraria, oppure no?

A chi è appassionato di ciclismo non resta che coltivare la propria passione, senza foderarsi gli occhi e magari con un po’ di “cautela”, per evitare brutte scottature.

E se ogni tanto siete stufi di leggere articoli sul doping e attacchi concentrici al vostro sport, e la vostra passione è sul punto di affievolirsi, il mio consiglio personale è di prendere la propria bici e il proprio doping (una borraccia di acqua fresca e un paio di barrette) e di uscire di casa.

– Hai altri progetti in cantiere sul mondo delle due ruote ?

Come casa di produzione (Stuffilm Creativeye, www.stuffilm.com) quest’anno seguiremo numerose gran fondo, in Italia e in Francia.

Nel mio cassetto c’è anche il progetto di un secondo film documentario sul mondo del ciclismo, magari questa volta dedicato alle storie di chi pur non essendo professionista macina migliaia di chilometri all’anno. Per restare aggiornati, vi invito a seguire il sito e la pagina facebook del film

– Ciao Paolo, grazie e a presto 

Ciao a tutti, buona visione e buone pedalate!

 

 

 

 

 

 

“Questo articolo è dedicato alla nostra passione.”

Oggi vi voglio parlare di un film che ho visto qualche giorno fa.

Non un film qualsiasi, un film sulla nostra passione, il ciclismo.

E in questo caso, uso la parola passione perché é quello che si prova nel vedere questo film.

Sto parlando de “L’ultimo chilometro”  un film-documentario sul mondo del ciclismo del regista Paolo Casalis.

L’ho visto una sera mentre ero a casa da solo e mi sono emozionato. Avrei voluto che vicino a me ci fossero anche mia moglie e le mie bambine, per far capire e trasmettere anche a loro cos’è quella fiamma che ci brucia dentro e che ci fa fare tanta fatica su una bicicletta.

Avrei voluto che lo vedessero anche quei miei amici che non hanno mai provato ad andare in bici e che mi guardano in modo strano quando gli dico che mi sono alzato alle 6 del mattino per andarmi a fare 100 km in sella ad una bici.

E’ un film fatto con passione e che trasmette emozioni. Le stesse emozioni che fanno di questo sport, il più bello ed unico al mondo, dove i corridori sono prima di tutto uomini, con le loro virtù e debolezze, con giorni di gloria e giorni nel fango.

Così come nella vita di tutti noi.

Uno sport che vive momenti difficili, e questo il film non lo nasconde, ma anzi va a ricercare senza ipocrisia, un personaggio come Davide Rebellin, “grande vecchio” del ciclismo, coinvolto nelle note vicende di doping, che però ci mette la faccia, il sudore, la fatica e l’umiltà di dimostrare a se stesso e agli altri che lui, nato per vincere,può tornare grande, anche da “vecchio”. E vi consiglio vivamente, prima di giudicare, di guardare questo film.

Uno sport che forse vive troppo nel passato e si culla nei ricordi dei “bei vecchi tempi”, e che a mio avviso, dovrebbe invece smettere di guardare nello specchietto retrovisore, ma guardare al futuro dei giovani atleti e creare un’ambiente in cui i corridori possano crescere con la cultura dello sport pulito.

Le parole di Gianni Mura, storico giornalista di ciclismo, (scrive ancora romanticamente gli articoli con la macchina da scrivere), sono emblematiche ” se si pensa che i corridori hanno nelle orecchie una trasmittente e sono teleguidati dall’ammiraglia, direi che questa è la fine dell’avventura”.

I giovani atleti di oggi vivono un ciclismo diverso, ma anche un mondo diverso da quello che ricordano i genitori, e non possiamo dare colpa a loro per questo.

Lo dimostra Ignazio Moser,figlio di Francesco, che si porta dietro il fardello di un cognome pesante, eppure segue la sua strada con grinta, determinazione, tenacia. E come dice lui ” Le corse che ho vinto finora non le ho vinte perché mi chiamo Moser…”

Uno sport che anche se vive momenti difficili rimane sempre lo sport più bello al mondo, lo sport della gente, dove per vivere un emozione non devi pagare un biglietto, ti basta arrampicarti in bici o a piedi fino ad un tornante di una salita per veder passare, per pochi intensi istanti, dei piccoli grandi eroi, e magari incontrare curiosi personaggi come El Diablo, alias Didi Senft che ha dedicato la sua vita a questa passione (lo sapevate che da giovane è stato un buon corridore?)

Questo film è un concentrato di tutte le emozioni che questo sport può regalare. Emozioni sportive, ma soprattutto emozioni umane, la ricerca del lato più intimo dell’atleta, con i suoi problemi, le sue aspirazioni, i sogni di gloria che rimangono tali a 20 anni come a 40 anni suonati.

Dopo aver visto il film, ho subito contattato il regista Paolo Casalis, e gli ho chiesto di rilasciarmi un intervista dove mi racconta un po’ la storia di questo film – documentario. Ne è uscito davvero un bel racconto che vale la pena leggere, e che pubblicherò tra un paio di giorni appena finito di sistemare.

www.thelastkilometer.com

 

Parte con lo sport
il nuovo Piemonte Movie

di Franca Cassine, Torino

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Cerca di resistere il «Piemonte Movie gLocal Film Festival». Nonostante i pesanti tagli ai finanziamenti lo abbiano seriamente messo in pericolo, gli organizzatori sono riusciti a proporre la XIII edizione, seppur in forma ridotta.
Quattro i giorni di programmazione nella sala Il Movie del Cineporto di via Cagliari 42 che prendono il via oggi e proseguono fino a sabato, nei quali sfilerà il meglio del cinema piemontese con 15 cortometraggi e 11 documentari (ingresso 4 euro, 3 il ridotto, abbonamento a 10 euro, tel: 011/42.70.14).
L’inaugurazione è per oggi alle 20,30 con una pellicola dedicata allo sport. Il cuneese Paolo Casalis presenterà in anteprima assoluta «L’ultimo chilometro. Vincere, perdere, lottare, fino all’ultimo chilometro», il suo ultimo documentario nel quale racconta la passione per il ciclismo. Protagoniste le storie di sportivi quali Davide Rebellin che a 41 anni ha ancora voglia di vincere, ma pure quelle di appassionati come Ignazio Moser (figlio di Francesco), del giornalista Gianni Mura e di «El Diablo» Didi Senft, con il suo costume da Diavolo e i folli inseguimenti dietro ai corridori. La serata si conclude alle 22,30 con la proiezione di «All’ombra della croce» di Alessandro Pugno che racconta la vita di alcuni bambini spagnoli.

FACTQuest’anno il Festival Cinematografico Piemonte Movie di Torino inaugura con un’anteprima dedicata al ciclismo!
Mercoledi’ 13 Marzo alle 20:30, presso la Sala Movie del Cineporto – via Cagliari 42 a Torino – il Festival aprirà i battenti con la proiezione del film documentario “L’Ultimo Chilometro”.
Un film autoprodotto, realizzato dalla casa di produzione Stuffilm di Bra (www.stuffilm.com), che racconta il ciclismo a 360 gradi: la passione, l’emozione, l’epica e la grande storia, ma anche gli scandali attraversati da uno sport che mai come oggi sembra arrivato al suo “ultimo chilometro”.
Nel documentario, della durata di 52′, si alternano quattro storie, quattro personaggi: Ignazio Moser, Davide Rebellin, Gianni Mura, El Diablo.

Vi invitiamo a diffondere questa comunicazione ai vostri amici in modo da trasformare questa serata in un incontro torinese tra gli appassionati di ciclismo (e di cinema!)

Per informazioni sul film vi invitiamo a visitare il sito www.thelastkilometer.com

Per informazioni sul Festival: www.piemontemovie.com

INGRESSO 4€