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condividiamo un bel pezzo di Andrea Scanzi pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 24 luglio 2013

Potete dire e scrivere quello che volete, potete “scoprire” post-mortem tutti gli scandali del mondo, ma io sarò sempre vicino a Marco Pantani. Non farò mai parte del folto gruppo di sciacalli che, da un giorno all’altro, lo abbandonarono.
Marco fu ucciso due volte. La prima a Madonna di Campiglio, il 5 giugno 1999, quando gli tolsero un Giro già vinto con un controllo “a sorpresa” pieno di falle. La provetta unica (dovevano essere due e il ciclista doveva sceglierle personalmente), l’anticoagulante che forse non c’era, il nervosismo degli addetti ai lavori, le rivelazioni di Renato Vallanzasca che in carcere venne a sapere giorni prima che “il pelatino non sarebbe arrivato a fine giro”. Anche i giornalisti lo seppero prima. Perché? Dietro a tutto questo c’era un giro di scommesse clandestine? E soprattutto: perché l’ematocrito di Pantani in quella provetta era del 52% (il limite massimo, al tempo, era 51%) ma sia la sera prima in hotel sia poche ore dopo a Imola era ampiamente sotto il 50%? Pantani sapeva che ci sarebbe stato quel controllo, non era scemo. Si era preparato. Oltretutto quel controllo non rivelò sostanze dopanti. Paradossalmente era un controllo per tutelarne la salute, fu fermato (due settimane: il tempo esatto di perdere il Giro) per “salvarlo” e non per punirlo. Non fu una “squalifica”, avrebbe già potuto correre al Tour (ma lo disertò per la depressione). Eppure tutti vendettero la notizia parlando di doping, fu fatto uscire dall’hotel scortato come un mafioso. E d’un tratto molti italiani, che ne avevano amato i trionfi e le rinascite dopo le troppe sfortune e infortuni (l’auto che lo investe, i gatti che lo fanno cadere), lo abbandonarono. Compresi tanti giornalisti, su tutti Candido Cannavò, che scrisse un editoriale violentissimo sulla Gazzetta (un maestro, Cannavò, ma quell’articolo era davvero discutibile).
Da quel giorno Pantani non si rialzò più e tornò nella spirale della cocaina. Era un ragazzo fragile, e tutt’altro che immune da difetti e tentazioni. Fu abbandonato. Raccontò la sua verità in una straziante intervista video a Gianni Minà, poco dopo l’episodio di Madonna di Campiglio. L’ultimo suo acuto fu al Tour de France del 2000, ma anche allora Lance Armstrong (che al tempo faceva il “santo” e come tale veniva trattato dai media, mentre Pantani era il reietto) glielo rovinò, sostenendo di “averlo fatto vincere” sul Mont Ventoux.
Non mi ha mai convinto neanche la morte al Residence Le Rose di Rimini, quasi cinque anni dopo, a 34 anni. Anche lì: troppe incongruenze. La camera era mezza distrutta, c’era sangue sul divano, c’erano resti di cibo cinese (che Pantani odiava: perché avrebbe dovuto ordinarlo?). Marco aveva chiamato due volte la reception parlando di due persone che lo molestavano (aneddoto catalogato come “semplici allucinazioni di un uomo ormai pazzo”). Pantani fu trovato blindato nella sua camera, i mobili che ne bloccavano la porta, riverso a terra, con un paio di jeans, il torso nudo, il Rolex fermo e qualche ferita sospetta (segni strani sul collo, come se fosse stato preso da dietro per immobilizzarlo, e un taglio sopra l’occhio). Vicino al suo corpo c’erano delle palline fatte con la mollica del pane, in cui sono state trovate tracce di cocaina. Nella camera non sono state trovate altre tracce di stupefacenti. Non esiste un verbale delle prime persone che sono entrate all’interno della camera, non è stato isolato il Dna delle troppe persone che entrarono nella stanza. Il cuore di Pantani – uno dei tanti aspetti macabri della vicenda – venne trafugato dopo l’autopsia dal medico, che lo portò a casa senza motivo (“Temevo un furto”) e lo mise nel frigo senza dirlo inizialmente a nessuno. Prima di morire a Rimini, il 14 febbraio 2004, era stato sette giorni in un hotel a Milano, davanti alla stazione, solo e trasfigurato. Poi cinque giorni a Rimini, per nulla lucido, accompagnato da figure equivoche. Avrebbe anche festeggiato con una squadra di beach volley poco prima di morire: chi erano? Perché il cadavere aveva i suoi boxer un po’ fuori dai jeans, come se lo avessero trascinato? Che senso aveva quel messaggio in codice accanto al cadavere (“Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”)? E potrei andare avanti con le incongruenze, tutte reperibili nei libri Vie et mort de Marco Pantani (Grasset, 2007) e Era mio figlio (Mondadori, 2008).
Certo, Pantani morì per overdose di cocaina, ma troppi particolari lasciano pensare (anche) a una messa in scena. L’autopsia, peraltro, confermò che le tracce di Epo nel suo corpo erano minime, segno evidente di come il ciclista non avesse mai fatto un uso costante di sostanze dopanti.
Sia chiaro: non sto dicendo che Marco Pantani sia stato un santo. Anche lui, come (credo) quasi tutti i ciclisti, si sarà qua e là aiutato con sostanze illecite. Non posso saperlo, non fatico a crederlo. Ma l’accanimento che subì, e l’ipocrisia feroce che lo ammazzò, non le ho mai viste applicate contro nessun altro sportivo. Mai.
Prima Eroe, poi rinnegato.
Marco Pantani è stato ammazzato due volte.
E io me lo ricordo bene.
Potete togliergli il Giro, il Tour. Potete fregarvene delle parole di sua mamma Tonina, dei giornalisti biografi (in particolare Philippe Brunel ed Enzo Vicennati) che da anni provano a sottolineare le tante anomalie nella sua vita e nella sua morte. Fate quello che volete, ma io ero e resto fedele al Pirata. Ha regalato emozioni e azzardi irripetibili. Vederlo era un rituale, era un’appartenenza. Chi non ha visto in diretta i suoi scatti in salita, non sa veramente cosa sia (stato) il ciclismo.
L’ho amato, come pochi altri sportivi. L’ho conosciuto, l’ho difeso, l’ho pianto. Ha sbagliato, come tanti. Ma ha pagato, ferocemente, molto più di quanto meritasse.

Chi ha creduto alle favole di Lance Armstrong
di John Foot
da Internazionale, 30 Gennaio 3013

Il giornalismo non ha fatto una bella figura con la storia di Lance Armstrong. Per anni, la grande maggioranza dei giornalisti ha creduto, o ha fatto finta di credere, alla favola di Lance. Il ciclista bravo, che sopravvive al cancro e poi vince il Tour de France per sette volte. Sembrava un miracolo. Ma non lo era.
Pochi osavano dubitare di questa bella favola. Ci sono state due ragioni, in fondo, per questo fallimento totale dell’informazione. Una era la comodità. Lance vendeva giornali, libri, e faceva molta audience. È stato il ciclista più famoso di tutti i tempi. Aveva potentissimi sponsor. Aveva molto potere. Era molto più facile chiudere un occhio, o due. Era molto più facile dire che i francesi erano solo gelosi. Era molto più facile raccontare le imprese del cowboy.
L’altra ragione è stata puramente legale. Lance querelava tutti quelli che scrivevano qualcosa sul suo rapporto con il doping. Minacciava. Emarginava. In Inghilterra ha querelato con successo un giornale potente come il Sunday Times. E quindi, per quelli che volevano una vita facile, era meglio non pensare all’epo, al dottor Ferrari, al testosterone, alle sacche di sangue nel frigo del dottor Fuentes. Era meglio credere alla favola.
Ma per alcuni giornalisti questa strada non era quella giusta. Erano pochi, ma non hanno mollato. Sono stati messi in un angolo. Non potevano fare domande alle conferenze stampa. Ma continuavano a indagare. Come veri giornalisti. E piano piano, la verità è venuta fuori. Qualcuno parlava, ad esempio qualche ciclista coraggioso come Filippo Simeone. E qualche giudice indagava. Alla fine il cerchio intorno al Armstrong si è chiuso. Anche grazie a questi giornalisti francesi, inglesi, irlandesi.
Hanno anche un nome e cognome. David Walsh, Paul Kimmage, Pierre Ballester. Adesso questi reporter rilasciano interviste, e i loro libri vendono tantissimo. Ma poco tempo fa erano visti come dei pazzi che volevano solo distruggere il ciclismo. Invece non era così.
Erano gli unici che potevano salvare uno sport che ha vissuto per troppo tempo nell’ omertà. Il loro lavoro dovrebbe essere letto nelle scuole di giornalismo. Sono gli unici eroi di una squallida storia di inganni, bugie, corruzione, leccaculismo, sponsor, soldi, sangue. Una favola che e diventata un incubo.

I miei anni con Armstrong,  brutta favola del ciclismo 

di Gianni Mura, dal sito www.repubblica.it

Sette Tour de France sprecati a raccontare le gesta di un bugiardo che aveva ingannato tutti, o quasi tutti. Pareva una bella storia, non una favola: quelle nel ciclismo non esistono di GIANNI MURA

IN UN POSTO che continuava a sembrarmi finto, Le Puy du Fou, nel luglio del ’99 mi appoggiavo idealmente alla canna della bici numero 181, quella di Armstrong. Tutti gli altri li avrebbe vinti col numero 1. Era un Tour senza Pantani e senza Ullrich. Armstrong ci arrivava dopo due quarti posti ai mondiali, linea e crono. E un quarto alla Vuelta.

Si conoscevano i suoi propositi, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Proprio il mare, che rende scivoloso d’alghe la stradella del Gois, fa cadere Zuelle ed è alleato di Armstrong. Nella crono di Metz cade e si ritira Julich, altro rivale di Armstrong che domina anche sulle Alpi. Tutto facile. Per me Armstrong era entrato in un cono di luce a Limoges, quando vinse e indicò il cielo per ricordare Casartelli.
È difficile rievocare quegli anni al Tour oggi, sotto un’altra luce che è quella della confessione (parziale), del crollo. Allora, almeno all’inizio, era una bella storia, forte, dura, non proprio una favola. Bisogna stare sempre attenti alla favole, nel ciclismo: Cappuccetto Rosso ha le siringhe nel cestino, la nonna spaccia e il Lupo è già cattivo di suo.
Ma una storia è una storia. Quella di un ragazzo che fin da bambino ha imparato da sua madre a essere un “guerriero della vita”. Che vince un mondiale nella bufera. Che corre solo di muscoli, cervello poco. Un torello da gare in linea. Si ripresenta cambiato nel fisico e nella testa. Parla anche in un altro modo. Giù dal podio di Parigi ringrazierà il cancroche ha fatto di lui un altro atleta ma soprattutto un altro uomo, migliore. I sospetti, quelli non sono mai mancati. Una pomata fuorilegge a Pau: “Sono un perseguitato”.
Attorno al capo c’è uno sbarramento sempre più robusto. Il più ciarliero dell’Us Postal è il cuoco, uno svizzero che si chiama Willi Balmat (“Con una nonna di Trastevere, cognome Di Rienzo”). Ad Armstrong piacciono gli spaghetti aglio e olio (peperoncino no), l’omelette (“Un rosso d’uovo e tre bianchi”), il risotto allo zafferano. Poi, le minacce di morte, le guardie del corpo, l’albergo come un fortino.
Si gira la Francia, ovviamente. Armstrong non è molto popolare, col passare del tempo. Solo Schumacher e Anelka risultano più antipatici, in un sondaggio. Ci si interroga anche tra noi in sala-stampa, o a cena. Tu ci credi? A me non piace, ma finché i controlli sono negativi ha ragione lui. Sì, perché usa qualcosa che gli altri non hanno, una cosa sperimentale, non si può avere quella cadenza di pedalate in salita, non è umano.
È umanamente strano, questo si può dire. Nel 2000 Pantani e Ullrich ci sono. In cima al Ventoux battuto dal vento sono in due, Armstrong e Pantani. Vince Pantadattilo e Armstrong dice che l’ha lasciato vincere. Pantani non gradisce e vuole fargli pagare l’omaggio-affronto. Vince a Courchevel, poi cerca di far saltare il Tour e salta lui, si ritira. È strano, o quantomeno nuovo, il modo di preparare il Tour. Già LeMond, l’amico-nemico, ne aveva fatto il centro della stagione. Armstrong ne corre almeno due: uno abbondante in allenamento, poi quello vero, quello che conta.
Si raccontano episodi al limite del fachirismo: la Madeleine due volte in maggio, pochi gradi sopra lo zero, l’Alpe d’Huez otto volte. C’è qualcosa di maniacale nel suo legame col Tour, e solo col Tour. E qualcosa di oscuro nella sua forza, che è anche la debolezza della concorrenza, sul podio si avvicendano Zuelle ed Escartin, Ullrich e Beloki, Beloki e Rumsas, Ullrich e Vinokurov, Kloden e Basso, Basso e Ullrich. Il solo a poter battere Armstrong: se non ingrassasse otto o nove chili passando l’inverno a ingozzarsi di dolci, se fosse meglio guidato dalle ammiraglie, se sapesse improvvisare e bluffare come Armstrong sul Glandon.
Anche una delle cose che i ciclisti temono di più, le cadute, sembrano non accanirsi con lui. Lo risparmiano. È Beloki che si schianta verso Gap, Armstrong a ruota ha i riflessi per sterzare in un campo di grano. E quando è lui a cadere, nella tappa di Luz Ardiden, Ullrich non lo attacca, rispettando un codice non scritto. Anche Armstrong è rispettato, in gruppo. Sempre stato così, coi padroni del gruppo. Amato, no. Troppo texano, troppo rigido, troppo esigente, coi gregari ma anche con se stesso. I gregari (quelli che poi gli testimonieranno contro) per lui si butterebbero nel fuoco. Non hanno spesso via libera. Quando succede, Hincapie vince il tappone pirenaico (altri sospetti, giustamente), Savoldelli a Revel. Ma non c’è posto per capitani alternativi, manco a parlarne. Uno solo deve vincere.
Con quali aiuti chimici, adesso si sa. Ma non è vero che tutti i giornalisti del Tour suonavano il violino. David Walsh in particolare, sul Sunday Times già nel 2001 accusava Armstrong di aver usato epo alla Motorola, e nel 2003 rincarava la dose con il libro “LA confidential”, scritto con Paul Ballester. Letti, e riferito. Ho voluto bene alla storia di Armstrong, perché mi accorgevo di quante persone riuscisse a coinvolgere, di quante speranze riuscisse a dare.
Armstrong era un ragazzo che riusciva a mettersi in piazza anche nei lati più tristi, che da malato aveva paura di addormentarsi e di morire nel sonno, che a tenergli compagnia aveva un gatto rossiccio trovato per strada e ribattezzato Chemio, e del resto anche Rogge, medico, presidente del Cio, un nonno che correva con Van Houwaert, dichiarò che di cancro si guarisce, è noto, ma che la funzionalità epatica si riteneva compromessa dalla chemio, mentre Armstrong recuperava meglio di prima.
Armstrong ha assunto un’altra faccia, ai miei occhi, il giorno di Lons, quando andò ad annullare la fuga di Simeoni, “uno che faceva del male al gruppo”, per difendere il buon nome (già) del dottor Ferrari. Un gesto antisportivo, indegno, volgare, mafioso. Chi lo compie, pensai quella sera, è capace di tutto. Ma i controlli erano sempre negativi, a Kristin succedeva Cheryl, alla telefonata di Bush l’abbraccio di Robin Williams. Un americano a Parigi, remake. La mano sul cuore. Una telenovela che non è finita con la confessione pubblica e lacunosa assai: se non si eliminano gli Alti Complici, non cambierà nulla.
E per Armstrong spiegare bene le cose ai suoi figli sarà più difficile che battere Beloki. Le salite più dure non sono quelle del Tour, Armstrong se ne sarà già accorto.

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